Di certe pesche si dice in italiano che hanno “l’anima spicca”, il nocciolo, cioè, ben distaccato dalla polpa. A spiccarsi del pari il cuore dalla carne o, se vogliamo, l’anima dal cuore, è chiamato l’eroe di fiaba, poiché con un cuore legato non si entra nell’impossibile.
C. Campo
La trama è bucata perchè ogni tessitura è fatta di nodi, di maglie, di incroci, di grovigli, che per loro natura lasciano fori, interstizi, spazi, spesso quasi impercettibili nel ritmo della tessitura.
Il buco è per sua stessa natura mancante e, come ogni vuoto, anziché elemento difettante e ansiogeno, può essere letto nei termini di un invito alla libertà, all'unicità, quindi prima di tutto alla possibilità. La possibilità di aggiungere maglie, accavallare altri fili o di cambiare filato, di sfasciare, di cardare, di tessere nuovamente.
Ogni fiaba ha una trama. Anzi, ogni fiaba è una trama.
Trama viene da trans-meare: passare di là. Ma di là dove? Dove ci porta il di là della fiaba?
Probabilmente tutto il nostro discorso verte intorno a questo “di là”.
La fiaba è una trama perchè intreccia personaggi, vicende, metamorfosi, peripezie, magie e destini.
È una trama bucata perchè, tanto per cominciare, viene da un buco, dalla mia bocca. La fiaba esige l'oralità, e mentre racconto tesso, costruisco. Meglio ancora, co-costruisco, perché il racconto va a finire nell'ulteriore buco, nel foro dell'orecchio di quell'altro che ascolta. Si è sempre in due a costruire il racconto. Ecco perché la fiaba è ogni volta originale e sperimenta possibilità nuove.
E poi ancora, la fiaba è apertura all'inedito pure per un'altra ragione. Bloch scriveva che “è bene pensare anche raccontando poiché a volte un evento non si esaurisce nel suo accadere, nemmeno se è narrato bene”. Che cosa vuol dire? Per prima cosa significa che raccontando si pensa, e pensando si racconta sempre in modo differente. Una fiaba non si dice mai con le stesse parole: l'accento, la pausa, la scelta di un termine diverso, un'enfasi o un'esitazione, una tacca più alta o più bassa del volume, tutto diventa un dritto o un rovescio in più o in meno. Ed ecco che cambia la tessitura. Cambia la trama. I buchi sono possibilità già in questo primo e semplice senso.
Non si sta parlando nel presente contesto delle complesse interpretazioni sovrastrutturali e razionalizzanti della fiaba, non è il terreno questo per ragionare sui numerosi studi che l'hanno a un certo punto anche slabbrata e cannibalizzata, svuotandola del suo tessuto insondabile e rituale. È meglio adesso premere il tasto “pause” e farne “fabula rasa”.
Basta qui ricordare che, nel suo nucleo più antico, la fiaba deriva dai riti di iniziazione delle società primitive, in cui i giovani venivano allontanati dalla tribù, sottoposti a prove crudeli e durissime per poi tornare a casa. In un certo senso la fiaba, che ricalca questa intelaiatura, nasce da una caduta del mondo sacro a quello laico, ed è ricominciata a vivere proprio quando l'antico rito è morto, lasciando di sé solo il racconto.
E il raccontare non vale meno, tutt'altro: la parola è la casa dell'essere.
Il linguaggio è ciò che ci rende soggetti, anche quando non possiamo tradurre una sensazione in un trasparente atto comunicativo, anche quando la parola rimane silenziosa. Perchè solo trovando un ormeggio per pensare, mettere insieme, esperire “l'essere sé”, l'individuo esce dalla nuda vita. È la parola questo ormeggio, che spesso dice molto di più di quanto il soggetto creda. E non oggettiva per forza, anzi, in questa sua veste fiabesca di discorso non cristallino, non razionale, non scientifico, mi dice qualcosa e dice qualcosa di molto reale. Ad essere irreale, a ben vedere, è un mondo obbediente al solo principio di necessità. La fiaba è l'accesso che permette di deviare da questa strada, facendo franare ogni meccanismo accecante innescato dalla fissità della legge di necessità.
Consideriamo ad esempio una cosa semplice e paradossale insieme: se il racconto storico, che – attenzione – non si definisce mai “trama” e tutt'al più può essere tradotto in “schema”o “griglia”, pretende di dire la verità sui fatti e il più delle volte non la dice, la fiaba che è trama, nel suo non pretendere nulla, la dice eccome.
Di questo parlano le fiabe.
Partendo da quel remoto “C'era una volta”, conducendoci “in un luogo lontano lontano”, la fiaba sembra accompagnare ad ‘essere fuori di sé’. Ma è un fuori che poi si rivela un essere-presso le cose, e insieme un essere perfettamente ‘in sé’. Reale. Di una realtà che esce dal gioco delle forze in campo attraverso un ordine di rapporti totalmente altro.
E non c'è contraddizione con la presenza della magia nella fiaba.
Non stiamo parlando della fantasticheria, che è una fuga dalla realtà, e se vogliamo anche una fuga impoverita del suo senso oggi: se una volta, quando si narrava “Apriti sesamo!” ed ecco che quello si spalancava, si restava sbalorditi, oggi che possiamo quasi dire nella realtà “Porta apriti!”, “Piatti lavatevi!” o “Panni asciugatevi!”, quello stesso stupore non c'è più. Allora se il fascino della fiaba mi coinvolge ancora, ci deve essere qualcos'altro che mi cattura.
Nella fiaba è in gioco la fantasia, che anziché fuga, è una dimensione della realtà umana, che stimola la creatività e legittima lo sforzo costruttivo dell'immaginazione. E l'immaginazione non ha meno autorevolezza della ragione nel fare mondo. Da dove è venuto l'aeroplano se non dalla immaginazione? Se non entro nel mondo di Utopia come faccio a criticare il mondo reale e a volerlo trasformare?
La fantasia e la magia nella fiaba allora, catturano non perché eclatanti o fini a se stesse, ma perché attivano il gioco dell'immaginare, del come se, del fare finta di, senza fuggire, ma provando a sperimentare una realtà diversa, un ordine di rapporti altro. Per tornare ai buchi della trama, possiamo dire che la fantasia tiene aperto il varco verso il possibile.
A questo serve, non a sciogliere il dramma che nella fiaba si consuma, anzi col flatus vocis, la fiaba quel dramma lo fa risuonare.
“C'era una volta, in un luogo lontano lontano” sembra mettere poi una rassicurante distanza spazio-temporale che ci consente di andare avanti nell'ascolto e nel racconto. È un meccanismo necessario questo, perché se mi dice il vero, allora la fiaba trova il modo di dirmi attraverso i suoi personaggi anche la violenza e il dolore, il buio e la luce, le foreste e gli abissi, i divieti e le infrazioni, le scelte difficili e le conseguenze che si possono pietrificare nel per sempre.
La fiaba lo riesce a fare perché è elementare, complicatamente, ma elementare.
Si serve ogni volta di personaggi dai tratti semplici, e anche le loro insolite vicende sono presentate come ordinarie.
Tale semplicità permette appunto di essere presso le questioni, di familiarizzarci in qualche modo, di conoscerle e riconoscerle. Perché con gli eroi delle fiabe ci si identifica. Che sia per somiglianza o per differenza, oltre a insegnarmi i destini diversi delle persone, i protagonisti mi fanno intrasentire qualcosa di essenziale della mia identità.
La fiaba si snoda e intrasento che parla proprio a me e di me. Che cosa mi dice? Cosa mi dicono Cappuccetto Rosso o Pollicino?
Mi dicono la verità.
E la fiaba la dice perché, come scrive Bettelheim, è onesta. Come scrive Calvino, la fiaba è vera. Ma su che cosa dice la verità? Che verità, se la fiaba mi porta “di là” col suo trans-meare?
Vediamo un po' di provarlo a cogliere, partendo dalla fine, da quel lieto fine cui arriviamo esausti, come se avessimo affrontato le dodici fatiche di Ercole.
A ben vedere, a renderlo lieto non sono la salvezza o la vittoria.
“E vissero felici e contenti” è sempre plurale. Nessuno “visse felice e contento” da solo. La fiaba mi dice sicuramente la verità sul male e sul dolore, sulla vita e sulla morte, ma mi dice anche che per salvarmi, per sopportare i limiti e spesso la povertà di questo mondo, ciò che può farmi veramente felice è tessere legami autentici con le persone.
Il finale è lieto pure per un'altra ragione: attraverso mille vicissitudini la fiaba sostiene che donne e uomini non si nasce, lo si diventa, e con fatica, attraverso un viaggio travagliato, su un terreno irto e sassoso. Il finale di una fiaba allora è lieto perchè mi dice che una seconda nascita, la metamorfosi, la possibilità di diventare, sono a poratata di mano.
È chiaro che nulla insegna Barbablù al fresatore nella sua catena di montaggio, né al ragioniere che deve chiudere un bilancio. Ma per fare un uomo o una donna ci vuole anche altro, qualcosa che non rientra nel computo della produttività e delle cose, qualcosa a cui tendiamo a non prestare attenzione.
Sempre più schiacciati nel sacrosanto qui e ora, viviamo un presente, consideriamo un presente, fatto solo di pieni, di cose precise, calcolabili e codificabili. Fatto di ruoli, divise, budget, planning. La giacca e la cravatta per andare a lavoro, le lezioni di karate, lo shopping al centro commerciale, l'estetista e il corso di pilates. Cose. Cose precise. C'è però dell'altro che si contrappone a questo spazio “diurno”, “qualcosa che manca” e che avvertiamo spesso la sera. Il problema è che non gli prestiamo attenzione, non prendiamo sul serio quel “qualcosa che manca”, che può essere l'angoscia per un litigio, una gelosia, un malessere esistenziale, la delusione di un figlio, il tradimento di un amico. L'incalcolabile. Non prendiamo sul serio questa parte indicibile di esperienza, e andiamo a dormire nell'attesa di ritornare all'indomani nel mondo dei “pieni”.
Ma siccome questa parte di esperienza è una cosa seria, la fiaba è una cosa seria perchè parla proprio lì, mi costringe a portare l'attenzione proprio lì.
Cristina Campo sottolinea giusto questo aspetto: come i protagonisti delle fiabe compiono i viaggi più spossanti attraversando foreste, si sottopongono a prove spaventose e crudeli, per uscire alla fine salvi e vincenti grazie alla giusta attenzione, così anche al lettore è richiesta la stessa attitudine. L'attenzione è saldamente attraccata al reale, e soltanto per echi intrufolati nel reale il mistero si può manifestare.
Parliamo qui di quel mistero essenziale, cioè di quello che non (mi) dico, che non (mi) ascolto.
Eppure è proprio quel mistero che non conosco, quel ciò che manca, “quello che mi manca”, è questo vuoto che mi fa essere me-proprio me. È questo buco nella trama della mia vita ciò che mi identifica.
Allora, sono buoni tutti a prendere il mio posto di cameriere, di funzionario di banca o di responsabile marketing, a comprare la mia stessa merce al centro commerciale, a seguire le lezioni di karate, a farsi il mio stesso lifting, a rispettare una griglia o uno schema del mio planning.
Ma per fare una donna o un uomo ci vuole altro.
Prestando la giusta attenzione a quel buco in cui il mio io vacilla e che tendiamo a censurare, si scopre una lucina. È l'attimo autentico di non sapere se stessi, che crea una specie di paradossale cortocircuito: il non sapere se stessi è autentico, e però è autentica proprio una cosa che non si sa!
È a quel buco che parla la fiaba, a quel non sapermi che poi sono io, e quindi è una cosa serissima.
Se prima citavamo la “fabula rasa”, nell'imbambolamento generale allora l'invito è fare una bella “fabula rasa elettrificata”, che non accompagna al sonno – altrochè! -, ma innesca quel paradossale cortocircuito che dicevamo, che risveglia quell'essenziale, quel “ciò che manca”, troppo spesso ibernato a tempo di valium, social, lezioni di karate, shopping al centrocommerciale e estetista del mondo dei pieni.
Per farlo ho bisogno di prestare attenzione, di ascoltare. E la fiaba è un'occasione imperdibile perché, a farci caso, è una delle rarissime cose che riusciamo ad ascoltare senza intrometterci col nostro io prevaricatore, senza interrompere.
Ma che devo ascoltare? Che mi deve dire Sherazade di così importante?
Che se non avessere raccontato al principe una fiaba sarebbe stata uccisa, come tutte le spose prima di lei. Che il principe, rapito ogni sera dall'ascolto, ha rinviato sempre la sua esecuzione. Che il principe, rapito dall'ascolto, ha compreso che al mondo il tradimento esiste, che esistono anche la gelosia, la rabbia, la gioia, la spensieratezza. Che il principe a suon di fiabe si è perfino innamorato.
È chiaro allora il messaggio di Scherazade: lei mi vuole dire, nel modo estremo che unicamente le fiabe conoscono, che solo tessendo, attraversando coi filati i vari buchi della mia esistenza, che solo “trans-meando” di là, mi salvo la vita di qua. Sherazade mi deve dire che la fiaba mi salva la vita.
E questa non è un'iperbole.
Testo di Irene Merlini
Bibliografia:
Battistutta F., Cristina Campo, Parole di acqua e di fiaba, in “Margo”, n. 4, 1990 e “Città di vita”, n.6, 1996.
Boella L., Ernst Bloch: le trame della speranza, Jaca Book, 1987.
Cambi F., Landi S., Rossi G., La magia nella fiaba. Itinerari e riflessioni, Armando Editore, 2010.
Cambi F., Landi S., Rossi G., L'immagine della società nella fiaba, Armando Editore, 2008.
Campo C., Gli imperdonabili, Adelphi, 1987.
D'Ambrosio Angelillo G., Filosofia del racconto, Acquaviva 1998.
Petrosino S., Le fiabe non raccontano favole. Credere nell'esperienza, Il Melangolo, 2013.
Montesarchio G., Buccoleri G., Fabula rasa. Dalla favola interpretata alla favola narrata, Franco Angeli, 2002.
http://www.bdp.it/Rodari/studio/critica/proecontrolafiaba.htm